Oggi mi sento molto Piero Angela, per cui inizio con la mitica frase:
“Chissà quanti di voi si saranno chiesti…” quale avrebbe potuto essere l’erede del Maggiolino, se gli avvenimenti avessero preso una strada diversa e negli anni a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 la Volkswagen fosse rimasta fedele agli schemi tecnici del modello che aveva fatto la sua fortuna.
La domanda “cosa farete dopo il Maggiolino”, a Wolfsburg incominciarono a sentirsela porre fin dagli anni ‘50. Del resto il design del Maggiolino già allora era vecchio di vent’anni.
La vettura cominciava a segnare il passo rispetto alla concorrenza, che dopo la guerra aveva ricominciato a sfornare nuovi modelli.
L’importatore svizzero era particolarmente insistente, a suo dire gli sarebbe stato impossibile continuare a vendere il Maggiolino ancora a lungo su un mercato così ricco ed esigente.
Tutti si aspettavano, prima o poi, un’erede. Heinz Nordhoff, che della VW fu direttore generale dal 1946 fino alla morte nell’aprile del 1968, pazientemente rispondeva al giornalista di turno nello stesso identico modo: che sì, ci stavano pensando, ma che erano contrari al cambiamento fine a sè stesso e che per il momento preferivano continuare a lavorare per migliorare il Maggiolino.
Filosofia riassunta nella famosa frase: “Non lo cambieremo per farlo apparire diverso, lo cambieremo per farlo funzionare meglio”. In pratica Nordhoff continuava a difendere il Maggiolino con ammirevole ostinazione.
La difesa era più che legittima, dal momento che la vettura continuava ad essere un successo mondiale. Così facendo però Nordhoff attirava su di sè le critiche di chi lo accusava di non pensare al futuro della Volkswagen, perchè prima o poi, il problema si sarebbe posto in tutta la sua gravità.
Solo una volta Nordhoff perse le staffe. Fu all’inizio degli anni ‘60. L’industria tedesca dell’automobile viveva un periodo di crisi e un esponente politico tedesco di primo piano, Franz Joseph Strauss accusò Nordhoff di starsene con le mani in mano.
Per tutta risposta Nordhoff rese pubbliche le immagini dei numerosi prototipi e modelli di stile che erano stati sviluppati come possibili eredi del Maggiolino.
Su alcuni di essi aveva lavorato anche la matita di Pininfarina. Erano il frutto di progetti che erano stati portati avanti in qualche caso fino alla pre-serie ma che per una ragione o per l’altra erano stati bocciati da Nordhoff stesso.
I prototipi erano stati quindi usati come vetture di servizio all’interno degli stabilimenti o accantonati nel “mausoleo”. Così era chiamato il capannone nel quale si conservavano i modelli mai entrati in produzione. Nordhoff voleva dimostrare a tutti che il problema di dare un erede al Maggiolino era tenuto in debita considerazione e che Volkswagen non stava affatto dormendo. In realtà ottenne l’effetto opposto. Lo show di prototipi si rivelò poco convincente e finì con l’alimentare critiche ancor più feroci.
Nordhoff prese atto della realtà e, dopo avere visitato il centro ricerche della General Motors negli USA, decise che anche Volkswagen doveva avere un proprio centro ricerche, completo di pista prova, all’avanguardia in Europa. Oltre a questo importante investimento, diede l’avvio a due importanti progetti.
Il primo e più urgente riguardava il miglioramento del Maggiolino esistente, per mantenerlo al passo con i tempi e con le normative dei vari paesi in cui veniva esportato. Con il model year 1968 fu introdotta una serie di aggiornamenti estetici e meccanici (su tutti i fari verticali e l’impianto elettrico a 12 volt).
Successivamente, nell’attesa di un’erede e sempre per lo stesso motivo (cercare di restare al passo con i tempi e le normative), venne sviluppato il Maggiolone, cioè i modelli 1302 e 1303, che rappresenta la massima evoluzione, il “canto del cigno”, del progetto iniziato da Porsche quarant’anni prima.
Il secondo progetto riguardava un modello completamente nuovo, che avrebbe dovuto sostituire il Maggiolino intorno al 1970. Questo progetto venne affidato ad un gruppo di interno all’azienda, allo Studio Porsche e all’Auto Union, che Volkswagen aveva acquisito da poco da Mercedes, ansiosa di disfarsene. Inizialmente l’idea era quella di usare lo stabilimento Auto Union di Ingolstadt per produrre il Maggiolino, cosa che in effetti accadde, ma i cassetti dei progettisti erano stati trovati pieni di idee e Volkswagen aveva deciso di rilanciare l’azienda, rispolverando il marchio Audi con il modello 60 del 1965 e abbandonando la produzione di utilitarie a miscela, vendute con il marchio DKW.
I tre gruppi di ricerca erano in concorrenza tra loro: ciascuno aveva ricevuto l’incarico di ideare e sviluppare una vettura che potesse sostituire Maggiolino.
Purtroppo Nordhoff non sopravvisse abbastanza a lungo da vederli realizzati. Si spense il 12 aprile del 1968, lasciando l’arduo compito di trovare un’erede al Maggiolino nelle mani del suo successore, Kurt Lotz.
Lo Studio Porsche realizzò il prototipo EA 266. I prototipi Volkswagen sono identificati con il codice del progetto, le lettere “EA” stanno per “ordine di sviluppo” e i numeri sono una sigla progressiva.
EA266
Gli obiettivi dei progettisti furono quelli di realizzare una vettura spaziosa, veloce, comoda e sicura. Si decise di partire da zero, senza utilizzare componenti esistenti.
Per la messa a punto della parte meccanica vennero usate delle Opel Kadett camuffate. La EA 266 era spinta da un motore 4 cilindri in linea raffreddato ad acqua. Con una cilindrata di 1588 cc, il motore erogava 100 cavalli a 5500 giri, sufficienti a far raggiungere alla vettura i 190 Km/h, velocità davvero notevole per i tempi. Il motore era collocato in posizione centrale, sotto il sedile posteriore.
La vettura era lunga circa 4 metri e aveva una carrozzeria a due volumi, con due bagagliai, uno nel cofano anteriore e l’altro dietro i sedili, al quale si accedeva con un comodo portellone. Le sospensioni erano indipendenti sulle quattro ruote. Si trattava di una vettura dalla linea moderna e filante (per i tempi), con un abitacolo luminoso.
Lo spazio per gli occupanti e per i bagagli era notevole, grazie alla particolare collocazione della meccanica, che aveva effetti benefici anche sul comportamento stradale. Non a caso molte vetture sportive adottano la soluzione del motore centrale. Purtroppo le soluzioni tecniche individuate dai tecnici Porsche rendevano la EA 266 estremamente complessa e costosa da produrre. Anche le operazioni di manutenzione erano tutt’altro che semplici. L’astina per il controllo del livello del lubrificante, collocata nel bagagliaio, era lunga più di un metro.
I test mostrarono che la posizione del motore rendeva la vettura molto rumorosa e faceva surriscaldare l’abitacolo, compromettendo il comfort dei passeggeri posteriori. A partire dal 1966 vennero costruiti svariati prototipi, utilizzati per i collaudi. Nel 1969, quando i test erano stati completati e si era ad un passo dall’attrezzare le linee di produzione, giunse improvvisa la decisione di sospendere il progetto.
Considerazioni di praticità e di economicità avevano prevalso sulla tecnica all’avanguardia. I prototipi furono distrutti schiacciandoli con un carro armato Leopard.
La collaborazione con lo Studio Porsche su questo progetto venne definitivamente interrotta nel 1971.
Fortunatamente due prototipi si salvarono da questa brutta fine. Uno di essi si trova attualmente al museo Volkswagen e quindi ci permette di sapere come sarebbe stata l’erede del Maggiolino se il progetto Porsche avesse avuto carta bianca per la produzione.
Il progetto interno, che reca le sigle EA 272 ed EA 276, riflette il desiderio di dare una chance al motore boxer raffreddato ad aria, che però era collocato in posizione anteriore. La vettura che doveva sostituire il Maggiolino aveva anch’essa una linea a due volumi con portellone posteriore. La rottura con il passato era sottolineata dalle linee tozze squadrate, ancor più che nel prototipo Porsche. Inizialmente (EA 272) si era pensato ad una soluzione mista: motore anteriore e trazione posteriore con il cambio collocato davanti all’assale posteriore. In seguito (EA 276) questa idea venne abbandonata perchè la presenza dell’albero di trasmissione sottraeva spazio all’abitacolo.
La EA276, progetto interno VW, motore boxer raffreddato ad aria posto anteriormente. Questo esemplare, privo di meccanica, è l’unico esistente.
Inoltre la presenza del cambio impediva di collocare il serbatoio del carburante nella posizione ancor oggi ritenuta più sicura in caso di incidente, e cioè sotto i sedili posteriori. Proprio in quegli anni entravano in vigore le prime normative per la sicurezza in caso di incidente e Volkswagen non voleva farsi cogliere impreparata.
Si passò quindi alla soluzione del motore boxer raffreddato ad aria anteriore abbinato alla trazione sulle ruote davanti. Anche questo progetto venne definitivamente abbandonato nel 1969. I prototipi furono anch’essi distrutti, tranne un esercizio di stile (cioè un modello di carrozzeria ed interni in scala 1:1 privo della parte meccanica), che è stato risparmiato e che ci permette di vedere quale sarebbe stata l’estetica di questa vettura.
Notare il disegno particolare del finestrino posteriore, con il taglio rovesciato, ripreso tanti anni dopo da Fiat sulla Seicento. Secondo Volkswagen, la EA 276, equipaggiata con il 4 cilindri boxer 1500 da 44 cavalli, sarebbe stata in grado di raggiungere i 130 Km/h.
EA276
Che cos’era successo? Nel frattempo, attraverso il marchio Audi, Volkswagen aveva acquisito esperienza nella realizzazione di motori 4 cilindri in linea raffreddati ad acqua e nella trazione anteriore con motore trasversale.
Questa si era rivelata la strada da seguire per realizzare una vettura economica da produrre e al passo con i tempi per abitabilità, prestazioni, economicità di esercizio e comportamento stradale. Fiat lo aveva appena dimostrato presentando la Primula e soprattutto la 128.
Restava il problema dell’estetica della carrozzeria. Lotz era convinto che doveva essere a due volumi per garantire la massima versatilità dell’abitacolo e del bagagliaio. Nel 1969 aveva visitato il salone di Torino e sei vetture avevano colpito la sua attenzione. Di esse quattro (una era l’Alfasud) erano opera di un giovane designer che si era fatto le ossa alla Bertone. Si chiamava Giugiaro e a lui venne affidato l’incarico di disegnare la nuova gamma di modelli, quelli che avrebbero visto la luce nel 1973-75. Ma questa è un’altra storia.
L’esperienza accumulata con il progetto EA 272/276 e con i prototipi dei primi anni ‘60 tuttavia non andò perduta. Il Maggiolino ebbe effettivamente una erede più moderna, anzi due. Ma anche questa è un’altra storia… che, se non vi ho annoiato sin qui, vi racconterò la prossima volta.
Articolo pubblicato su MKC NEWS, di Luca “Phormula” Stramare